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CESARE BURTI
Laurea in medicina e chirurgia a Milano, Università Statale. Specializzando in gastroenterologia presso Università degli studi di Milano Bicocca - Monza. È attualmente assegnato all’unità operativa di gastroenterologia all’Ospedale Papa Giovanni XXIII (Bg). Sarà al Centro Trapianti di Bergamo da settembre 2018 a marzo 2019. Come specializzando ha frequentato alcune lezioni del Master.
La sua storia a medicina, perché?
“Al liceo scientifico mi appassionavano proprio le materie scientifiche e in particolare biologia, merito anche della mia professoressa di scienze che ricordo ancora con molto affetto, tutto questo e alcune vicende famigliari mi hanno portato alla decisione di iscrivermi a medicina. Ho frequentato l’Università Statale con il triennio di scienze di base in città Studi e gli ultimi tre anni dedicati alla parte clinica e ai tirocini a Rozzano presso Humanitas che, all’epoca, era ancora convenzionato con la Statale. Gastroenterologia mi è piaciuta già in quegli anni. L’ho scelta come specialità perché preferivo un indirizzo clinico rispetto a uno chirurgico. Tra le specialità cliniche inoltre, la gastroenterologia offre la possibilità di curare pazienti giovani per i quali il trattamento può essere risolutivo e cambiare definitivamente la qualità della vita”.
Come è stata la sua esperienza all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo?
“Per la specializzazione ho inziato a Monza, poi sono stato assegnato a Bergamo dove ho trascorso già un anno in endoscopia digestiva e dove passerò i prossimi sei mesi presso il Centro Trapianti. Il percorso fatto fin qui è molto positivo... in realtà vorrei dire entusiasmante. Bergamo non è un ospedale universitario e dunque ci sono pochi specializzandi, questo consente di essere sempre attivi, sempre al lavoro a diretto contatto con i pazienti. L’approccio è molto concreto e meno teorico. È una struttura molto grande e si lavora davvero tanto: si incontrano moltissimi casi e tra di essi è alto il numero di quelli rari e complessi. Tutta questa esperienza mi ha aperto la mente, mi ha aiutato ad essere più veloce nell’individuare le problematiche del paziente e a compiere le scelte che ne conseguono. Ho molta fiducia anche nella prossima esperienza al Centro Trapianti. Mi rendo conto che per ragioni logistiche non sia possibile per tutti gli specializzandi in gastroenterologia frequentarne uno, ma per chi è più interessato alla parte epatologica penso si renda necessario per saper curare, in seguito, pazienti epatopatici più o meno gravi e complessi”.
Come si immagina tra pochi anni?
“Ho ricevuto una formazione endoscopica digestiva valida e mi piacerebbe metterla a frutto. Vorrei lavorare in un servizio di endoscopia ma non limitandomi a fare il “tubista”, come diceva il prof. Strazzabosco, vorrei anche occuparmi della parte clinica”.
Ha mai pensato di lasciare l’Italia?
“Sì, ma considerata la densità del programma previsto in 4 anni per la specializzazione ho preferito privilegiare l’esperienza diretta per avere un maggior baglaglio di esperienza da utilizzare al lavoro una volta concluso il percorso di formazione”.
Cosa ne sapeva del trapianto prima della specializzazione?
“Poco o nulla. Provenivo da Humanitas che non è un Centro Trapianti e dove, in quegli anni, l’epatologia non aveva un grande spazio”.
Come si conosce il mondo dei trapianti all’interno dell’Università? Che cosa manca e cosa c’è?
“Poco. La medicina del trapianto è un settore molto specialistico ed è giusto sia così, ma credo che all’interno degli studi di base sia possibile un inquadramento migliore; l’Italia è leader in questo ambito e per un giovane studente può essere molto interessante averne qualche approfondimento in più. Il prof. Strazzabosco, con il quale ho lavorato i primi anni a Monza, per me ha avuto un ruolo importante grazie il carisma con il quale ci guidava e come punto di riferimento su cui tutti potevamo contare. La sua indicazione rispetto al fatto che un epatologo non può prescindere dal maturare un’esperienza formativa presso un Centro Trapianti è stata per me decisiva, così come è adesso l’esempio del prof. Fagiuoli, direttore del dipartimento di gastroenterologia ed epatologia al Papa Giovanni XXIII, con la sua capacità di guida e di ascolto”.
Come si conosce il mondo dei trapianti al di fuori dell’Università?
“I giovani studenti di medicina lo conoscono poco perché è un argomento fuori dai grandi canali di comunicazione; ancor più questa lontananza dal tema della donazione emerge nel pubblico generico: si potrebbe fare molto di più a livello di divulgazione scientifica”.
Esiste uno stereotipo tra trapianto e chirurgo?
“No non credo, perché è un argomento lontano dal grande pubblico mentre per gli studenti di medicina l’approccio è diverso”.
Esiste uno stereotipo tra trapianto e cuore?
“No, anche questo non mi sembra un tema decisivo”.
Conosce il Master?
“Sì e quando lavoravo a Monza ho avuto la possibilità di partecipare a qualche lezione con grande interesse. Il Master è un’ottima occasione per chi ha già concluso la specializzazione, ma anche per gli specializzandi che a Monza possono frequentarlo come uditore”.
Fanno paura la responsabilità del dono e della buona riuscita dell’operazione?
“Sì e tanto, perché la responsabilità è addirittura tripla. In occasione di un trapianto infatti “si ha sulla coscienza” non solo la vita di chi riceverà l’organo e di chi lo ha donato, ma anche nel caso in cui l’accoppiamento tra donatore e ricevente non sia corretto, quella di chi avrebbe potuto ricevere l’organo e invece rimane in lista d’attesa. Questa è la parte della gastroenterologia dove sono più grandi le responsabilità ma anche le soddisfazioni”.
LEONARDO CENTONZE
Laureato in medicina e chirurgia all’Università La Sapienza di Roma. Specializzando all’Università Statale di Milano in chirurgia. In questi mesi sta lavorando all’Ospedale Niguarda.
Perché chirurgia a Milano?
“Perché mi piace la possibilità di agire direttamente sulla patologia, di essere in prima persona l’agente di cura; a questo si aggiunge poi la grande passione per l’anatomia che è cresciuta nel corso degli studi universitari. Ho scelto Milano perché mi consentiva di avvicinarmi al mondo dei trapianti grazie al collegamento tra la Statale e il Niguarda, il Centro Nazionale Tumori, il Policlinico di Milano e l’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Il Centro Trapianti di Niguarda, dove sono ora, rappresenta senz’altro un centro di avanguardia in Italia, dove ho avuto la possibilità di assistere sia a trapianti di fegato che di rene e di pancreas, oltre ai trapianti combinati. Inoltre, questo centro rappresenta un’eccellenza nel campo di trapianti da donatore vivente, avendo effettuato il maggior numero di trapianti di fegato da donatore vivente adulto-adulto in Italia e portando avanti da quasi dieci anni un programma di donazione di rene da vivente con tecnica di prelievo robotica. Un altro importante primato del centro è rappresentato dall’utilizzo di fegati da donatori a cuore non battente, campo in cui Niguarda può vantare la più grande casistica a livello nazionale. Un sistema molto complesso che mi consente di avere una formazione tanto ampia quanto specifica”.
Quali i suoi interessi per il mondo del trapianto?
“Il mio è un interesse duplice: in primo luogo il trapianto di fegato e la chirurgia epato-bilio-pancreatica rappresentano a mio avviso due dei campi più interessanti e tecnicamente più affascinanti della chirurgia addominale. In secondo luogo, la chirurgia trapiantologica comporta una grande complessità nella gestione del paziente sia nel pre- che nel post-operatorio, il che è di grande stimolo. Un chirurgo dei trapianti non si limita al gesto chirurgico: riveste infatti un ruolo cruciale nel management del paziente dall’immissione in lista al giorno del trapianto, ed estende la sua attività alla gestione medica del paziente trapiantato, a partire dall’immunosoppressione sino al follow-up post-trapianto. Mi piacerebbe molto rimanere in questo ambito”.
Come valuta il percorso formativo italiano offerto agli studenti di medicina e agli specializzandi di chirurgia?
“Positivo, ma esistono aspetti da migliorare: ad esempio nei grandi centri universitari quando si passa dall’aula alla corsia il numero degli studenti è spesso troppo alto rispetto al numero di pazienti, almeno secondo quella che è stata la mia esperienza. Le cosiddette attività professionalizzanti risultano spesso dispersive, non consentendo nella maggior parte dei casi un contatto diretto con il malato, per il problema ‘numerico’ già indicato; di conseguenza molto è lasciato alla volontà del singolo studente di frequentare i reparti oltre gli orari ‘curricolari’. Per la specializzazione il discorso è più complesso: è legittimo che il desiderio di tutti noi specializzandi sia quello di essere protagonisti del gesto chirurgico, ma personalmente ritengo che vada altrettanto riconosciuta l’importanza di essere inseriti in strutture per-specializzate dove sia possibile assorbire tutta la complessità di alcuni rami della chirurgia. Tale iper-specializzazione, d’altro canto, non ricade sotto il controllo delle Università e dovrebbe invece essere tutelata dalle Regioni, che dovrebbero limitare tramite un rigido sistema di controllo la dispersione di patologia cui si assiste in certe branche chirurgiche, a volte anche a discapito dei pazienti. La centralizzazione di patologia, la rotazione in centri iper-specializzati, l’aumento della casistica monocentrica uniti a un rigido controllo dell’attività operatoria degli specializzandi da parte delle Università garantirebbe a mio avviso una formazione di spessore maggiore per noi specializzandi”.
GIULIA BONATO
Laurea all’Università di Bologna. Specializzanda in gastroenterologia presso Università di Milano Bicocca, Ospedale Niguarda Milano. Sta per cominciare l’esperienza nel Centro Trapianti, sarà al Niguarda dal settembre 2018 al marzo 2019. Ha frequentato alcune lezioni del Master come uditrice.
La sua storia a medicina, perché?
“Ho deciso durante il liceo perché quando studiavo biologia e il corpo umano ero molto interessata a sapere come funzionasse sia sotto l’aspetto fisiologico che patologico. Mi hanno affascinanto la soddisfazione della curiosità scientifica e l’importanza dell’aspetto sociale. Mi sono laureata a Bologna e poi sono passata a Milano al Niguarda e alla Bicocca per la specializzazione in gastroenterologia. È stata una scelta legata all’interesse per le malattie epatiche e per l’endoscopia digestiva. Dell’endoscopia, in particolare, mi affascinavano non solo il fatto di poter fare diagnosi ma soprattutto le possibilità terapeutiche di questa branca, che sono in continua crescita e consentono in alcuni casi di risparmiare al paziente un intervento chirurgico”.
Come è stata la sua esperienza al Niguarda?
“Molto interessante e di grande ispirazione per la casistica ampia e complessa con la quale sono venuta a contatto. Questo è un Centro che raccoglie casi non più gestibili in strutture di II livello e attraverso i quali si impara molto anche rispetto al pre e al post trapianto. Bologna è un Centro importantissimo per l’epatologia e l’epatologia del trapianto dove c’è una grossa cultura della cura del fegato, ma mi sono trasferita a Milano per vivere in un ambiente lavorativo diverso e perché sapevo essere un luogo all’avanguardia per l’endoscopia diagnostica e interventistica”.
Come si immagina tra pochi anni?
“Vorrei occuparmi di endoscopia digestiva e spero di avere la fortuna di lavorare nel settore dell’endoscopia delle vie biliariche che si occupa di pazienti con patologie bilio-pancreatiche o con complicanze post-trapianto”.
Ha mai pensato di lasciare l’Italia?
“Sì. Ho pensato alla Francia che penso abbia il miglior sistema di formazione pre e post laurea d’Europa, ma non sono mai partita perché l’Italia mi ha dato finora ottime opportunità formative. Non escludo però di trasferirmi all’estero in futuro, anche solo per un periodo”.
Cosa sa oggi del mondo dei trapianti?
“Conosco la gestione del paziente epatopatico compensato e scompensato, e come lo si invii al Centro Trapianti ma poi la mia esperienza si ferma”.
Cosa si aspetta dall’esperienza nel Centro trapanti del Niguarda?
“Vedrò tutto il percorso fino all’ultimo step della malattia epatica e poi il nuovo inizio. Penso sarà un’esperienza molto intensa perché la trapiantologia è affascinante per l’aspetto scientifico, ma soprattutto per quello umano”.
Che stereotipo c’è fra trapianto e chirurgo?
“Tra i pazienti e i non addetti ai lavori il trapianto è assimilato all’operazione e dunque all’attività del chirurgo”.
Che stereotipo c’è fra trapianto e cuore?
“Tra tutti i tipi di trapianto, quello di cuore è quello che ha fatto più parlare di sé nella storia. Oggi questo stereotipo è venuto meno grazie alla maggiore informazione sul mondo della trapiantologia di organi ritenuti meno nobili”.
Come si conosce il mondo dei trapianti all’interno dell’Università?
“Ho avuto la fortuna di studiare a Bologna dove il trapianto di fegato è protagonista anche nella formazione; nel mio percorso ho avuto 2 mesi di tirocinio: uno con il chirurgo e uno con l’epatologo. Da quell’esperienza di studente mi è rimasta la consapevolezza di come il trapianto di fegato sia davvero un’occasione di rinascita, ricordo pazienti che a distanza di anni dall’operazione festeggiavano l’anniversario del trapianto proprio come se si trattasse di un compleanno”.
Che cosa manca all’Università?
“Non si affrontano gli aspetti legati all’immunosoppressione e altri ancora perché troppo specialistici. Credo sia giusto a livello universitario ricevere un inquadramento generale per la gestione del soggetto epatopatico e sulla candidatura al trapianto, utile a supportare l’eventuale medico di famiglia nella sua funzione sociale. Gli aspetti più tecnici è bene vengano lasciati a chi ne è davvero interessato”.
Come si conosce il mondo dei trapianti al di fuori dell’Università?
“C’è un impegno diffuso. Il nostro Paese è ad un buon livello per la sensibilizzazione alla donazione”.
Conosce il Master?
"Sì. Ho frequentato alcune lezioni da uditrice con il prof. Strazzabosco. So che dura un anno, che è organizzato dall’Università Bicocca e che affronta tematiche cliniche e chirurgiche connesse al trapianto di fegato, oltre all’importante tema dei criteri di allocazione degli organi e che permette di entrare in diretto contatto con clinici e chirurghi. È una buona opportunità per tutti gli epatologi e per altri specialisti che si vogliano occupare di trapianti di fegato in generale. Spero di poterlo frequentare ancora”.
Fanno paura la responsabilità del dono e della buona riuscita dell’operazione?
“Fanno molta paura perché l’organo disponibile diventa un bene comune. Ci vuole estrema ponderatezza nell’assegnarlo al ricevente più adatto e più bisognoso. Talvolta le scelte possono sembrare difficili da accettare per il singolo, ma in una visione generale sono quelle corrette per il bene di tutti. La decisione è garantita dall’équipe multidisciplinare e dalla comunicazione tra i diversi specialisti in tutto il percorso”.
MELISSA BAINI
Laureata in medicina e chirurgia all’Università Bicocca. Specializzanda all’Università Bicocca in chirurgia. In questi mesi sta lavorando all’Ospedale Niguarda.
Perché chirurgia?
“Fin dagli anni di studi a medicina ho voluto fare il chirurgo, poi al terzo anno con l’inizio del tirocinio ho avuto la conferma della mia scelta. Dal quel momento l’interesse per la chirurgia è cresciuto continuamente e al Niguarda sono rimasta molto colpita dalle possibilità di studio, e professionali, legate al mondo del trapianto”.
Quali i suoi interessi per il mondo del trapianto?
“Le mie esperienze precedenti si erano svolte in ospedali dove non c’era un Centro Trapianti e la mia conoscenza su questo tema era legata a quanto avevo studiato solo sui libri. Quando con la specializzazione è stato possibile arrivare al Niguarda ho colto l’occasione, spinta dalla voglia di conoscere e capirne di più. Tutte le aspettative sono state confermate, la chirurgia del trapianto è stimolante da un punto di vista tecnico e consente inoltre di maturare molta esperienza nella gestione del paziente sia prima e che dopo l’operazione. Con i malati si crea un legame personale: prima se ne ascoltano le fatiche e poi se ne seguono i successi per tutta la vita. La chirurgia epatica mi aveva sempre interessato, ma il trapianto era qualcosa di lontano data la mia inesperienza, eppure oggi che ho vissuto dal dentro la realtà di un Centro mi piacerebbe molto restarci”.
Come valuta il percorso formativo italiano offerto agli studenti di medicina e agli specializzandi di chirurgia?
“Positivo sia per la parte universitaria che per quella di specialità nel corso della quale c’è la possibilità di conoscere diverse realtà con le loro eccellenze, ma anche di farsi conoscere in vista di un futuro inserimento lavorativo. È un percorso molto interessante che nei grandi Centri permette di acquisire vaste conoscenze ma, proprio perché qui si parla di grande chirurgia, talvolta poco spazio è lasciato alla parte pratica. Al contrario nei piccoli ospedali la minore complessità degli interventi permette un approccio più diretto anche agli specializzandi, seppur il contesto sia nel complesso meno stimolante”.
VALERIO PONTECORVI
Laurea a Roma, Università la Sapienza. Specializzando in gastroenterologia presso Ospedale Niguarda Milano. Ha frequentato il Master nel 2018.
La sua storia a medicina, perché?
“Da ragazzo desideravo fare l’avvocato, poi a 16 anni c’è stato un cambiamento repentino e decisivo: dentro di me è nata l’idea di studiare medicina. Tale percorso, iniziato con la mia mancata ammissione al corso di laurea al primo anno, si è dimostrato nel prosieguo estremamente soddisfacente tanto da riuscire, a seguito del superamento del test al secondo tentativo, a completare il corso di studi in cinque anni, piuttosto che i canonici sei. Quando si è trattato di scegliere l’indirizzo di specializzazione avevo già ristretto la gamma delle possibilità in base ai miei interessi. Mi sono sempre piaciuti gli aspetti pratici, le procedure manuali e dunque ho valutato sia chirurgia generale che gastroenterologia. Alla fine ha prevalso gastroeneterologia e oggi sono molto soddisfatto. Dopo la laurea mi sono trasferito a Milano perché ritenevo importante trovare nuovi stimoli, mettermi in gioco e inserirmi in strutture di eccellenza nel campo della gastroenterologia”.
Che stereotipo c’è fra trapianto e chirurgo?
“Il chirurgo è certamente una figura fondamentale nel trapianto di fegato in quanto è colui che effettua l’intervento. Senza di lui non c’è trapianto. È a tutti gli effetti il riferimento interno all’equipe e quello più considerato dall’esterno (pazienti, parenti, opinione pubblica). Tuttavia è importante ricordare che il chirurgo prima, durante e dopo l’intervento opera in sinergia con numerose figure ad altissima specializzazione. Quando si pensa al trapianto è più giusto farlo immaginando un’intera équipe trapiantologica”.
Come è stata la sua esperienza al Niguarda?
“Partecipare alle attività del Centro Trapianti è stata un’esperienza di grande arricchimento. Ritengo rappresenti una tappa necessaria nel corso della specializzazione, anche per chi non vorrà poi occuparsi direttamente di epatologia o trapiantologia. È fondamentale poichè in un Centro Trapianti si viene a contatto con tanti casi diversi e tutti molto complessi. Il rilevante carico emotivo cui sono sottoposti i sanitari è compensato poi dalle numerose soddisfazioni di cui la più intensa è veder “rinascere” un paziente dopo il trapianto”.
Come si immagina tra pochi anni?
“Vorrei occuparmi di endoscopia digestiva in quanto comporta un aspetto pratico manuale nell’attivià medica; occuparmi di questo in un Centro Trapianti sarebbe bellissimo perché in tale contesto ci sarebbe un’attività molto intensa, varia e complessa”.
Ha mai pensato di lasciare l’Italia?
“Mi piacerebbe farlo per un periodo di ulteriore specializzazione, pensando poi ad un rientro, se possibile. Per me sarebbe interessante il Belgio, per approfondire l’endoscopia digestiva, oppure la Gran Bretagna, per epatologia”.
Cosa ne sapeva del trapianto prima di questa esperienza?
“Quando mi sono iscritto a medicina il trapianto era per me qualcosa di misterioso, non riuscivo a coglierne le varie sfaccettature. Dopo aver frequentato il Centro Trapianti mi sono reso conto dell’importanza dell’équipe, delle difficoltà tecniche, della quantità di aspetti da considerare (maggiori rispetto ad altri settori della medicina), di come non ci sia margine di errore”.
Come si conosce il mondo dei trapianti all’interno dell’Università?
Che cosa manca e cosa c’è? “All’università si studiano le basi del trapianto, si acquisiscono gli elementi fondamentali. Credo sia giusto così perché si tratta di un indirizzo molto specifico che, correttamente, è sviluppato dopo, con grande profondità, per chi sceglie quella strada”.
Come si conosce il mondo dei trapianti al di fuori dell’Università?
“C’è poca sensibilizzazione sull’argomento. Io mi sono iscritto al registro dei donatori tramite l’anagrafe un anno prima di andare al Niguarda perché lavorando in questo settore ne ho compreso l’importanza. Si può fare di più e credo che una grande spinta, in un Paese cattolico come l’Italia, possa venire dalla Chiesa. La frase recentemente pronunciata da Papa Francesco ‘La donazione degli organi è un atto nobile e meritorio’ è un segno forte e utile per tante persone che ancora si devono staccare da stereotipi e paure”.
Conosce il Master?
“L’ho frequentato nel corso del mio tirocinio al Niguarda. È organizzato con grande efficienza tra lezioni teoriche e discussioni pratiche nel pomeriggio. Ricordo come molto utili le lezioni frontali grazie alle spiegazioni e alla raccolta dei materiali forniti dai docenti; di grande stimolo sono stati i confronti delle tavole rotonde in cui sono emersi problemi tecnici, economici, gestionali e anche linee di pensiero diverse, seppur con un fine comune”.
Le fa paura la responsabilità del dono e della buona riuscita dell’operazione?
“Il dono che, come medici, ci troviamo a gestire è qualcosa di unico: lo è per il chirurgo, per l’anestesista, per tutti coloro che sono coinvolti ed in primo luogo per il paziente. Lavorare in un Centro Trapianti è una responsabilità enorme e comporta numerose pressioni che bisogna saper gestire. Personalmente sono molto contento quando sento che mi si sta dando fiducia per svolgere un compito importante. È sulla base delle esperienze vissute al Niguarda che ritengo si tratti di una tappa fondamentale per la mia crescita e, lo ribadisco, a mio parere dovrebbe essere un passaggio obbligatorio per tutti gli specializzandi in gastroenterologia”.
SIMONE FAMULARO
Laureato in medicina e chirurgia all’Università La Sapienza di Roma. Specializzando all’Università Bicocca di Milano in chirurgia. In questi mesi sta lavorando all’Ospedale Niguarda.
Perché chirurgia alla Bicocca?
“Già negli anni di studi a Roma ho avuto il desiderio di confrontarmi con realtà diverse e sono stato in Norvegia (al quarto anno) e poi a Londra. La Norvegia, raggiunta attraverso l’erasmus, mi ha dato la possibilità di studiare in un Paese costruito su un sistema completamente diverso dal nostro, sia dal punto di vista organizzativo che sociale, che politico. A Londra sono andato pochi mesi dopo la laurea, prima ancora di sostenere l’esame di specializzazione, presso il The Royal Marsden NHS per occuparmi di chirurgia epatobiliare. Lì ho svolto anche attività di ricerca, con studi poi pubblicati, e mi sono innamorato di questa specialità”.
Quali i suoi interessi per il mondo del trapianto?
“Ho voluto fortemente arrivare all’Università Bicocca per la specializzazione. Rappresentava il luogo ideale per chi, come me, aveva interessi legati anche allo studio dell’epatococarcinoma: un argomento che mi ha messo in diretto contatto con il mondo dei trapianti. Nel tempo passato al Niguarda ho visto un approccio al fegato necessariamente più avanzato e complesso che altrove; mi sono interessato molto anche all’aspetto vascolare che non avrei potuto approfondire così. Il collegamento Biccoca-Niguarda mi ha consentito anche di incontrare il prof. De Carlis in occasione di studi compartecipati e, attraverso di essi, lavorare oggi con lui e la sua équipe”.
Come valuta il percorso formativo italiano offerto agli studenti di medicina e agli specializzandi di chirurgia?
“È opportuno distinguere tra gli anni universitari e quelli della specializzazione. A Roma ho fatto parte del Consiglio Accademico come rappresentate degli studenti e nonostante le molte battaglie fatte, ancora tanto, tanto ci sarebbe da migliorare. Per chi studia chirurgia il grosso problema è che non esiste una vera e propria scuola di specialità. Io sono stato fortunato, ma è anche una fortuna che mi sono cercato scegliendo la Bicocca, di essere inserito in uno dei pochissimi ambienti dove in Italia l’insegnamento della pratica chirurgica è reale e dove gli specializzandi sono accompagnati concretamente per diventare autonomi. Ho amici e colleghi che in altre regioni spesso sono confinati a fare i segretari dei grandi chirurghi, che operano fino in tarda età, e che di fatto costringono gli assistenti in situazioni entro le quali l’indipendenza è raggiunta oltre i cinquant’anni. È un vero paradosso rispetto alla situazione europea e mondiale. Il cortocircuito è evidente nei convegni dove i relatori prendono come esempio i sistemi formativi inglese, francese, americano poi, però, il nostro continua a ripetersi su vecchi schemi”.
LAURA CRISTOFERI
Laurea all’Università di Bologna. Specializzanda in gastroenterologia presso Università degli studi di Milano sede aggregata Milano Bicocca. Ha lavorato presso il Centro Trapianti dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo dal marzo 2018 al settembre 2018. Non ha frequentato il Master.
La sua storia a medicina, perché?
“Una volta finito il liceo avevo pensato di frequentare il corso di economia dei beni culturali dell’Universtà Bocconi, mi piaceva l’idea di unire la matematica all’arte; osservando il piano di studi mi sono però accorta che a quest’ultima era lasciato ben poco spazio. Ho valutato la possibilità di iscrivermi a medicina perché mi sembrava la giusta via di mezzo tra arte e scienza. È stata una decisione presa pochi giorni prima del test di ammissione, ma una volta iniziato il percorso di studi è stato amore a prima vista e con impegno tutto è andato bene. Mi sono dunque laureata a Bologna l’università più vicina a Ravenna, la mia città di origine; al momento della scelta della specialità ero incerta. Volevo qualcosa che mi consentisse di studiare più organi, di muovermi tra clinica e pratica e la gastroenterologia è stata la mia scelta. Ho deciso di trasferirmi a Milano per motivi personali e per cercare un ambiente che potesse darmi una nuova visione rispetto a quella bolognese. Sono dunque approdata alla Bicocca dove il prof. Strazzabosco per il primo anno aveva iniziato un percorso come sede aggregata con due specializzandi”.
Come è stata la sua esperienza?
“Strazzabosco ha creato un percorso formativo di specialità molto completo. Quando mi sono laureata a Bologna ho presentato una tesi sul cancro gastrico e la mia idea era quella di diventare endoscopista, ma quando sono approdata a Milano in una scuola diretta da un epatologo ho pensato che si potessero aprire nuove strade. È stato così e in prima istanza Strazzabosco ha considerato fondamentale l’esperienza di 6 mesi in un Centro Trapianti quale luogo privilegiato di apprendimento e osservazione. Confesso che qualche dubbio mi è venuto perché, in principio, il mio unico desiderio era fare l’endoscopista. Ora al quarto anno ho cambiato completamente idea e il periodo passato nel Centro di Bergamo è stato basilare per osservare e valutare tante malattie del fegato e per capire davvero la complessità e il fascino di quest’organo”.
Come è stata la sua esperienza all’Ospedale Papa Giovanni XXIII?
“Molto positiva. Sono stata a Bergamo dal marzo 2018 al settembre 2018. Ho scelto questo ospedale perché mi consentiva di vivere l’esperienza della terapia subintensiva e capire quale ruolo un epatologo possa avere anche in questo ambito. È stata un’esperienza molto varia e densa: dal reparto all’ambulatorio dove ho approfondito il lavoro pre e post trapianto con il prof. Fagiuoli. Sono stati momenti diversi dal punto di vista adrenalinico, ma altrettanto completi nella formazione”.
Come si immagina tra pochi anni?
“Ho capito grazie al prof. Invernizzi e al dott. Carbone, il mio attuale direttore di scuola aggregata e il mio referente a Monza, che la ricerca deve andare di pari passo con l’attività clinica per soddisfare la curiosità come motore del nostro lavoro e altrettanto per concretizzare quanto fatto da chi ci ha preceduto. Desidererei vedermi occupata e, meglio ancora, essere attiva come clinica in un Centro Trapianti dove poter unire i due aspetti.”
Ha mai pensato di lasciare l’Italia?
“Sì, oggi la medicina è internazionale e pur amando l’Italia non mi chiuderei ad altre possibilità. Nel frattempo ho in programma per l’anno prossimo, l’ultimo della specialità, un anno a Cambridge in Gran Bretagna per studiare le malattie autoimmuni del fegato. Vorrei capire meglio come funzionano il metodo scientifico inglese ed europeo”.
Che stereotipo c’è fra trapianto e chirurgo?
“Rispetto alla mia esperienza e all’organizzazione vista a Bergamo posso dire che i pazienti vivono il trapianto dal punto di vista clinico più che tecnico, sono concentrati sull’aspetto della rinascita. A Bergamo la loro figura di riferimento per il trapianto di fegato è l’epatologo che li segue prima e dopo. Il chirurgo è certamente fondamentale perché da lui dipende la buona riuscita dell’intervento, ma al Papa Giovanni XXIII la linea di continuità e umanità si intreccia prevalentemente con lo specialista del fegato”.
Che stereotipo c’è fra trapianto e cuore?
“Non esiste. Sempre rispetto a quanto vissuto personalmente posso dire che oggi molti dei pazienti sono per lo più giovani e hanno vissuto la rivoluzione tecnologica, sono piuttosto informati rispetto alla loro malattia, ai suoi aspetti specifici e al trapianto”.
Cosa ne sapeva del trapianto prima di questa esperienza?
“Pochissimo, confesso, quasi nulla sia da un punto di vista organizzativo che sulla rete dei trapianti. Quel che sapevo lo avevo raggiunto solo per interessi personali e per quanto avevo imparato all’Università dove mi erano state spiegate le malattie croniche che portano al trapianto e dove ci erano state date le linee base più generali”.
Come si conosce il mondo dei trapianti all’interno dell’Università?
“In quegli anni non ero direttamente interessata al tema, ma avevo degli amici volti alla chirurgia che ne erano affascinati. Esisteva il mito, per i giovani studenti, del chirurgo trapiantologo perennemente in viaggio di notte verso l’estero per il prelievo di un organo. Era quella l’immagine che ne avevamo e, giustamente, il prof. Pinna ne era l’icona. A Bologna l’approfondimento sul trapianto era ed è, ancora, riservato a chi voglia davvero prendere questo indirizzo così specifico anche per gli epatologi”.
Giusto?
“Nì. Questo campo è così difficile e ricco di sfaccettature sia cliniche che chirurgiche che può non essere per tutti. Se invece se ne ha anche solo l’interesse, l’esperienza in un Centro Trapianti apre la testa e dà grande flessibilità nel leggere il paziente epatopatico”.
Che cosa manca all’Università?
“Il risvolto pratico. A Bologna ho frequentato la più antica Università d’Europa e il corso, dal punto di vista teorico, è stato di altissimo livello. Per ragioni pratiche e di tempo, purtroppo, nel periodo riservato all’esperienza diretta sia i medici che i tirocinanti hanno sempre poco tempo da dedicare agli studenti. Si comincia la specialità ancora acerbi, a meno che si sia fatta una tesi clinica con relatori molto attenti”.
Come si conosce il mondo dei trapianti al di fuori dell’Università?
“È difficile entrarvi in contatto se non si hanno amici o parenti che abbiano vissuto questo tipo di esperienze, oppure se non si abbia un tutor esperto. Avvicinarmi a questo mondo, mentre ero studente, non è mai stata un’opportunità che mi sia stata offerta. Oggi il trapianto è meno interessante per i media perché, fortunatamente, se ne fanno di più e con sempre migliori risultati. È dunque difficile per un giovane conoscerne il mondo”.
Conosce il Master?
“‘Ho avuto modo di sentirne parlare e so che per chi ha terminato la specialità è una grande occasione. Una ulteriore prova è il riscontro soddisfatto di una collega conosciuta a Bergamo che è infettivologa”.
Fa paura la responsabilità del dono e della buona riuscita dell’operazione?
“L’aspetto etico è quello che più mi ha fatto riflettere. Prima dell’esperienza a Bergamo vedevo l’organo come qualcosa di “sacro” che si potesse avere solo con caratteristiche speciali. In realtà ho capito quanto sia importante mettersi nei panni del paziente e capire che, nei limiti del buon senso, tutti possiamo fare errori e che una seconda occasione non si nega ai più. È importante che attorno al paziente vi sia un team multidisciplinare che di concerto possa decidere insieme se quel trapianto debba essere eseguito o meno. È una responsabilità condivisa e l’unione di tante competenze è la prima garanzia per il paziente e il primo punto di rispetto per il dono”.